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Riforma delle pensioni sul tavolo di Draghi. Ma qual è la situazione a Verona

Le più basse hanno importi medi di 500 euro al mese. Penalizzate le donne. Per lo Spi Cgil di Verona: “una questione sociale che va affrontata”.

Il tema delle pensioni è proprio in queste ore all’attenzione del governo e del Presidente del Consiglio Draghi che devono provvedere alla manovra finanziaria di fine anno e ai correttivi di Quota 100. Come Spi Cgil vogliamo provare ad aprire uno squarcio sulla realtà quotidiana delle pensioni e dei pensionati in Italia, nel Veneto e a Verona per andare ad di là delle zuffe politiche e far capire che la partita riguarda riguarda il futuro e il benessere del Paese intero.

Gli ultimi dati elaborati dall’archivio statistico dello Spi Veneto sulle pensioni del settore privato disegnano un quadro sociale di grave criticità sociale. Anche a Verona, infatti, decine di migliaia di  pensionate e pensionati veronesi sono costretti a vivere con importi di pensioni che gravitano pericolosamente attorno alla soglia della pensione sociale che per il 2021 è di 5.983,64 euro annui (pari a 498,63 euro al mese).

Nel territorio scaligero, senza contare i pensionati del pubblico impiego, vengono erogate ogni mese 260.580 pensioni che corrispondono a circa 200.446 pensionati o pensionate per un importo medio di 992,63 euro per ogni pensione, sensibilmente inferiore alla media regionale che è di 1.002,72 euro (a far peggio sono soltanto Rovigo e Belluno).

Ben il 64% delle pensioni erogate, 167.350 in cifra assoluta, sono pensioni “povere”, cioè al di sotto dei mille euro al mese. Si dovrebbe anzi dire poverissime, dal momento che l’importo medio in questa fascia è di appena di 526,73 euro al mese. Sebbene tale cifra non si discosti tanto tra maschi e femmine, nella fascia più bassa delle pensioni le donne sono enormemente più rappresentate che gli uomini: l’82% delle pensionate sono infatti pensionate “povere” o “poverissime”, mentre i maschi pensionati che percepiscono meno di mille euro al mese sono “solo” il 42%. In termini assoluti si stima che tale condizione di criticità a Verona e provincia coinvolga 91.472 pensionate e 37.300 pensionati per un totale di 128.731 cittadini.

Come se la cavano, dunque, queste persone? Se la cavano cumulando più di una pensione, dal momento che, sempre stando alle medie, ad ogni pensionato corrispondono circa 1,3 pensioni. Nel caso delle donne più spesso è la pensione di reversibilità del marito. Ma con queste cifre, sbarcare il lunario non è facile soprattutto se fuori di casa non trovano servizi pubblici all’altezza.

Possiamo anche provare a ricostruire come se la passa chi sta meglio: la fascia “alta” delle pensioni (sopra ai mille euro al mese) appare di esclusivo dominio degli uomini che percepiscono in media 1.345,05 euro (dato lievemente superiore della media regionale che è di 1.355,24 euro). In totale i pensionati maschi a Verona sono 116.169, pari al 45% dei pensionati.

Anche qui, tuttavia, le medie si scontrano con significative differenze territoriali: le pensioni più alte le troviamo infatti nel capoluogo, Verona, che ovviamente è anche un importante centro amministrativo; nella zona della Valpolicella e nell’entroterra gardesano dove c’è una tradizione di lavoro salariato in settori forti e trainanti come quello del marmo; nell’est Veronese, anche questa area vasta ricca di attività imprenditoriali; mentre gli importi sono mediamente più scarsi nella Bassa veronese e decisamente inferiori nelle aree montane della Lessinia.

L’importo medio di una pensione femminile è invece di appena 709,14 euro e le donne sono il 55% dei pensionati veronesi.

Queste cifre a nostro avviso sono importanti per due ragioni: la prima perché indicano chiaramente quale sarà il trend (e le emergenze) del futuro, tenuto conto che la demografia dei nostri territori va nella direzione di un ulteriore, forte, invecchiamento. La seconda è che in questa condizione possono rispecchiarsi anche tanti giovani la cui carriera contributiva è frastagliata oggi più di ieri dalla precarietà e dal momento che le questioni che hanno fatto “poveri” le lavoratrici ed i lavoratori di ieri non sono state ancora risolte. Parliamo ovviamente del lavoro di cura che ancora attende di trovare adeguato riconoscimento e che di fatto è già il nervo sensibile di una società che presenta meno lavoro “buono” e maggiore bisogno di cura.

Come Spi Cgil, insieme ai sindacati dei pensionati di Cisl e Uil promuoviamo una riforma delle pensioni che tenga conto delle difficoltà concrete delle persone, sia nel senso di sostenere il reddito delle pensioni più basse, ad esempio con la richiesta della quattordicesima mensilità, sia nel favorire il pensionamento delle categorie deboli come caregiver, disoccupati lavori gravosi o usuranti attraverso meccanismi di uscita dal mondo del lavoro che non siano troppo penalizzanti sui già modesti assegni. Per i giovani occorre prevedere una pensione di garanzia a copertura dei buchi contributivi indotti da un mercato del lavoro che negli ultimi decenni è fortemente orientato alla precarietà.

La nostra analisi comporta anche una linea di azione diretta e immediata sui territori, perché non dobbiamo rassegnarci ad una politica incapace di guardare più in là della prossima tornata elettorale e che si permette di ignorare anziché provare a governare il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Non possiamo neanche abituarci ad una politica che chiude entrambi gli occhi anche di fronte alla condizione sociale di tante pensionate e pensionati che spesso è al limite della sussistenza. Anche a livello locale si può fare di più e meglio offrendo ai pensionati servizi pubblici all’altezza. Quelli sanitari in primis ma, come dimostrano i più recenti studi sulla terza età, nella lotta alla solitudine e all’esclusione sociale degli anziani  è di fondamentale importanza anche la qualità dei servizi comunali e dello spazio urbano

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