La testimonianza di Aida Brusaporco, presidente dell’assemblea generale dello Spi regionale, responsabile della lega di Dueville (Vi) e madre di due figli infermieri in una struttura residenziale
“Io lo so bene che il mio fardello è condiviso soprattutto dagli operatori che ogni giorno lavorano con la paura di contagiare i propri familiari. E dagli stessi familiari: moglie, mariti, figli, mamme e papà. Noi ci siamo come sindacato, è vero. Ma, sapere che tutto poteva essere evitato e, può essere ancora evitato e, nessuno li ascolta è terribile. È terribile pensare alle persone ricoverate, alle quali sono state tolte tutte le piccole grandi cose che le facevano sentire una persona-soggetto e non oggetto di cura”. Sono le parole che Aida Brusaporco, ex coordinatrice sanitaria di quello che fu il manicomio di San Felice a Vicenza, trasformatosi nel tempo in una Rsa psicogeriatrica, nonché presidente dell’assemblea generale dello Spi del Veneto e responsabile della lega di Dueville (VI). Aida racconta con fortissima emozione quello che anche lei – come forse tutti noi – sta provando davanti alle troppe morti didelle persone anziane, ricoverate nelle case di riposo. E lo fa con cognizione di causa: oltre ad essere ex lavoratrice di una Rsa, ha due figli infermieri che stanno lavorando in prima linea in due differenti strutture residenziali per anziani del vicentino. Vogliamo riportare il suo messaggio per intero, perché è un appello accorato a ricordarci che gli anziani che muoiono nelle case di riposo non sono solo vecchi, come troppo spesso e senza alcun pudore si è detto fin dai primi decessi di persone anziane, ma sono vite con una storia che rischia di cadere nell’oblio e in un alunga e semplice lista di morti. Le parole di Aida sono anche testimonianza fortissima e commovente di chi per una vita si è occupato di offrire cura e dignità agli ospiti ricoverati nelle case di riposo, luoghi spesso visti come semplici corridoi della morte, definizione che sembra ancora più reale proprio davanti a ciò che stiamo vedendo accadere in questo pesante momento storico. Ricordiamo: non sono “solo vecchi” senza anima.
“Molte volte ho detto che gli istituti e le Rsa altro non sono che, la “morte sociale”. Solo l’opera di chi accudisce i pazienti con cura e amore, può rendere un po’ più dignitosa e meno dolorosa questa lenta agonia. Quante volte al momento della morte, abbiamo tenuto la mano e accarezzato il volto di chi non aveva parenti. Quante volte abbiamo cercato parenti invisibili o assenti, quante volte abbiamo rassicurato quelli presenti. Quante volte abbiamo strappato il sorriso di un/una ospite facendo loro la barba o, una piega, mettendo una collana o un foulard, leggendo un giornale, camminando un po’ con loro, giocando a carte, curando i maledetti calli che fanno tanto male”.
“Tutto questo – continua Aida – è stato tolto tra gennaio febbraio. Mi chiedo, quante e quali rinunce e sofferenze, in aggiunta a quelle che già hanno, stiamo procurando? Non più una esistenza dignitosa, non più affetti e, forse non più operatori in grado di accarezzarti e tenerti per mano. A che scopo? Solo quello di prolungare le sofferenze e rendere indignitosa anche la morte. I nostri ospiti, accolti nelle strutture sono persone malate e fragili che non hanno molto tempo davanti a loro. Vorrei non aver mai lavorato con persone così, vorrei non averle mai accudite e amate e, mai pianto quando soffrivano. Vorrei dire basta, basta: hanno già sofferto. Chiediamo loro cosa desiderano veramente. Diamo loro una voce e, forse se avremmo l’umiltà di ascoltarli, ci indicheranno una giusta via”.