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Salari da fame producono pensioni da fame

Filice (Spi Cgil): “Lottiamo per retribuzioni ed assegni dignitosi”

La battaglia, sacrosanta, sul salario minimo sta portando alla luce un aspetto finora ancora troppo trascurato, sottaciuto, sostenuto con la dovuta convinzione quasi soltanto dal Sindacato: l’assoluta necessità di garantire ai giovani attuali, futuri pensionati, assegni dignitosi, perché i salari bassi di oggi si tradurranno inevitabilmente in pensioni da fame domani.

GLI STUDI. Di recente ne hanno preso atto anche i componenti del Consiglio Nazionale dei Giovani, organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che in un ricerca pubblicata ai primi di agosto in collaborazione con Eures relativa alle retribuzioni dei 40enni lavoratori dipendenti nati nel 1984, hanno evidenziato come la prospettiva di una larghissima fetta della popolazione giovanile sia quella di andare in pensione nel 2053, a 70 anni, con un assegno di meno di mille euro netti (le donne come sempre più penalizzate) per superare i quali dovrebbero restare al lavoro fino a 73,6 anni. Di qui la richiesta di una pensione di garanzia, proposta da sempre sostenuta dal Sindacato, a carico della fiscalità generale, che intervenga “ogni qual volta il trattamento pensionistico maturato con i soli contributi versati dovesse rivelarsi inadeguato a una condizione di vita dignitosa”.

Allo stesso risultato è sostanzialmente giunta anche una proiezione del maggio scorso fatta dalla Corte dei Conti su un campione di lavoratori dipendenti 40enni, dalla quale risulta che solo gli addetti delle forze armate e delle sanità stanno accumulando un montante contributivo sufficiente a garantire un domani una pensione dignitosa. Nemmeno gli statali si salvano più. Non tutti, almeno.

LE RIFORME PASSATE. Sono questi gli effetti del contributivo puro, la riforma del sistema di calcolo delle pensioni avviata da Dini nel 1995 cancellando il sistema di calcolo retributivo puro (cioè basato sull’importo degli ultimi stipendi), e portata a termine con Fornero nel 2012 cancellando le pensioni di anzianità ed imponendo il nuovo sistema di calcolo basato unicamente su quanto effettivamente contribuito assieme alle nuove soglie di età per tutti coloro che hanno cominciato a lavorare a partire dal 1° gennaio 1996.

IL CONTRIBUTIVO PURO A VERONA. Gli effetti di tale sistema sugli importi degli assegni pensionistici sono già visibili anche nel veronese. Secondo i dati Inps relativi alle pensioni di vecchiaia e anzianità del settore privato vigenti in provincia di Verona nel 2023, l’assegno medio di un lavoratore dipendente andato in pensione con il contributivo puro è di appena 816,7 euro, vale a dire del 40% più leggero rispetto all’importo medio delle pensioni dell’insieme di tutti gli ex lavoratori dipendenti (1.349,79 euro). Le pensioni contributive pure sono ancora una piccola minoranza delle pensioni di vecchiaia o anzianità (in numero assoluto nel veronese sono 15.145 su un totale di 211.750 pensioni, pari al 7,1%) e sono ancora prevalentemente diffuse tra i lavoratori che vanno in pensione come parasubordinati (10.561 pensionati contributivi puri su 15.145 sono ex lavoratori parasubordinati) ma sono in crescita del 18% rispetto al 2021, quando questo tipo di pensioni erano 12.825 e sono destinate a diventare maggioranza in tutti i settori nel corso del prossimo decennio.

L’EVOLUZIONE. Attualmente un pensionando che abbia anzianità contributiva prima del 31 dicembre 1995 opta per il contributivo soltanto in pochi casi, ad esempio quando abbia versato contributi alti ad inizio carriera che poi si sono affievoliti negli ultimi anni. Nel confronto del biennio 2023-2021 vediamo aumentare soprattutto le pensioni calcolate con il metodo misto di Dini, passate dalle 19.724 del 2021 alle 29.249 del 2023 (+48,29%). Sembra rallentare il boom di uscite con il metodo di calcolo riforma Fornero (25.179 pensioni vigenti nel 2021 contro le 27.172 del 2023 pari a +7,9%). In parte spaventati dal nuovi paletti e in parte incentivati dai vari sistemi di “pensione anticipata”, con la Fornero presero la strada del pensionamento decine di migliaia di professionisti della sanità, del pubblico impiego e del settore privato, ma pochissimi operai, come dimostrano gli importi medi degli assegni medi che si attestano fin dal 2015 del 60% fino al 100% superiori alla media delle pensioni vigenti. Vanno, di converso, lentamente ma inesorabilmente scemando le pensioni retributive pure, che di fatto non esistono più: erano 153.313 nel 2021, oggi sono 140.184: un meno 8,4% in due anni.

IL COMMENTO DEL SEGRETARIO. “Diciamo che l’aspetto pensionistico è l’altra faccia della battaglia del salario minimo perché è terreno ancora troppo poco considerato dalla politica pur avendo un peso rilevantissimo nella dignità e nell’autonomia di una persona – commenta il Segretario generale Spi Cgil Verona Adriano Filice –. Una strategia riformista e progressista, che punti all’equità e alla giustizia sociale, dovrebbe portare avanti di pari passo tutti questi tre aspetti: salari, pensioni, servizi sociali. Perché è il lavoro di oggi che costruisce le pensioni di domani, ma retribuzioni e pensioni non si difendono se non si recupera l’enorme ritardo sulla sanità, sulla scuola e su tutti i servizi sociali che consentono di tenere insieme un disegno di società” prosegue Filice.
In questi giorni come sindacato rivendichiamo retribuzioni dignitose, il rinnovo dei contratti scaduti, una legge che misuri la rappresentanza, il recupero del potere d’acquisto di salari e pensioni, una pensione dignitosa per i giovani, misure per contrastare la crescente povertà, un salario minimo – prosegue –. Per moltissime lavoratrici e lavoratori già oggi le analisi ci consegnano un futuro drammatico, con pensioni sotto la soglia di povertà. Siamo in presenza di una ‘povertà di accumulazione contributiva’. A ciò si aggiungono le rigidità della cosiddetta riforma Fornero che prevede un lunghissimo e continuativo versamento di previdenza: 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini (2.227 settimane) e 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne (2.175 settimane) a prescindere dall’età anagrafica oppure 67 anni unitamente ad almeno 20 anni di contribuzione” sottolinea Filice.
Oltre ai lavoratori poveri oggi i più esposti a vera e propria povertà pensionistica sono i giovani, troppo spesso precari, occasionali, partita iva involontari, con buchi contributivi derivanti da periodi di disoccupazione. I giovani (ma anche le donne) oggi concentrano su di sé la peggiore condizione che si possa immaginare dal punto di vista previdenziale. Con gli attuali ritmi contributivi le proiezioni per moltissimi di loro danno una pensione ad un’età di 74 anni per un importo netto di 1.000 euro. La discontinuità lavorativa, e la crescite precarietà che mantiene basse le retribuzioni colpisce soprattutto i giovani e le donne che non hanno stabilità contrattuali e adeguati livelli retributivi.
C’è da considerare che oltre a ciò, siamo in presenza di una sanità che non tutela più il cittadino, soprattutto le anziane e gli anziani. Sevizi sociali totalmente inadeguati alle emergenze dell’attuale società. Per questo le retribuzioni, il salario, il lavoro riguardano anche il sindacato dei pensionati. Perché il lavoro di oggi costruisce la pensione del domani
” conclude Filice.

Image by Freepik

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