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Case di riposo: il sismografo della società italiana

Uno dei tanti paradossi del nostro Paese è che il suo futuro passa per la gestione della questione degli anziani piuttosto che delle giovani risorse. L’allungamento della speranza di vita, unitamente al fenomeno della denatalità, fa in modo che la popolazione sia sempre più vecchia e sempre più rada. Secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, l’Italia perderà dai 6 ai 7 milioni di abitanti entro il 2065. L’età media passerà nell’arco di 45 anni da 45,6 a 50,2 anni.

Da noi il declino demografico corre più veloce che nel resto del Continente: in Europa, la percentuale degli over 65 sul totale della popolazione passerà dal 19,7% del 2018 al 29,1% nel 2060. In Italia, la quota di over 65 salirà dal 22,6% del 2018 al 34,3% nel 2060.

L’attuale sistema delle case di riposo è assolutamente insufficiente a supportare una simile crescita: l’Italia conta 19 posti letto ogni mille abitanti, una cifra di gran lunga inferiore alla media dei Paesi Ocse che conta 47 posti letto ogni mille abitanti.

Attualmente il 63% delle donne oltre i 50 anni svolge la funzione di caregiver informale nel proprio nucleo familiare. Ma le ripetute crisi economiche e la continua riduzione del numero componenti dei nuclei famigliari sono destinate a far venire progressivamente meno anche il ruolo che le famiglie hanno svolto sia come ammortizzatore sociale sia come sostegno nella cura degli anziani. E nel frattempo l’età media delle persone che entrano nelle rsa continua a crescere: da 84,7 anni nel 2013 e di 85,9 nel 2019.

Trent’anni di politiche mancate nel sostenere famiglia e natalità, e la sostanziale assenza di una politica dell’immigrazione, hanno trasformato un fatto positivo come l’allungamento della speranza di vita – legato ai progressi della medicina, della scienza e del welfare – in un handicap per il Paese.

I conti non tornano e non c’è una soluzione matematica al declino demografico in corso che si sta evidenziando anche nella ripresa economica post Covid, con sempre più imprese che lamentano la mancanza di lavoratori e lavoratrici necessari ad incrementare i livelli della produzione.

Per quanto riguarda le case di riposo, la grande sfida che esse hanno davanti è quella di aprirsi al territorio e alle comunità locali, trasformandosi da luoghi di cura relativamente segregati, separati, e sempre più ospedalizzati, a luoghi di vita, parte di un sistema socio-assistenziale che valorizza e sostiene fino a quando sia possibile l’autonomia e l’autosufficienza dell’anziano e dell’anziana.

È pur vero che il Pnrr non offre molti spunti nel campo della residenzialità, ma gli strumenti per un primo ripensamento del modello delle case di riposo sono già almeno in parte disponibili nell’urbanistica delle nostre città che dovrebbero prevedere spazi e funzioni per una una integrazione delle funzioni socio-sanitarie con quelle residenziali tradizionali.

Su questo punto si dovrà misurare anche l’adeguatezza delle proposte politico-programmatiche che verranno avanzate con la ormai imminente tornata elettorale delle elezioni comunali 2022. Si parla del bisogno di progetti di co-housing e di residenzialità diffusa, di independent living e l’assisted living, ma anche, molto più banalmente, di eliminazione delle barriere architettoniche.

Monsignor Vincenzo Paglia, che da presidente della Commissione per la Riforma dell’Assistenza Sanitaria e Sociosanitaria degli Anziani ha sostanzialmente ispirato la parte sanitaria del Pnrr con il suo l’obiettivo di prendersi carico a domicilio di 1 milione di anziani, parla esplicitamente di “ospedalizzazione a domicilio” affermando che «le case di riposo dovrebbero riqualificarsi in un continuum socio-sanitario, ossia offrire alcuni loro servizi direttamente nei domicili degli anziani, prendere in carico la singola persona con risposte assistenziali modulate sui bisogni personali a bassa o ad alta intensità».

Le osservazioni del professor Marco Trabucchi, Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, non mancano di riportare tutti con i piedi per terra, ricordando che molto spesso questi obiettivi di personalizzazione delle cure sono semplicemente inarrivabili, in quanto «oggi in molte strutture il 65-70% degli ospiti hanno la demenza. Verso di loro anche l’assistenza è difficile. Come si esprime concretamente la libertà e la dignità di una persona con demenza, che ha una forte dipendenza, che rischia di avere disturbi comportamentali, che fatica ad avere relazioni con gli altri ospiti? Sono problemi enormi».

Quale che sia la strada da prendere, sarebbe necessario un confronto ampio a coinvolgere, oltre gli esperti, anche le istituzioni locali, le organizzazioni sindacali e le forze politiche. Quello che purtroppo vediamo è che molte Regioni, tra cui il Veneto, che manca ancora di una legge di riforma delle case di riposo, si limitano ad “appaltare” la gestione dell’autosufficienza degli anziani alle strutture del territorio rinunciando ad affrontare il tema in tutte le sue profonde implicazioni.

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