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Anziani non autosufficienti gravi: quando la retta della casa di riposo deve essere tutta a carico del Ssn?

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione del 6 febbraio 2024 riapre il dibattito sulla componente “alberghiera” di cura socio-assistenziale della retta della casa di riposo, che in determinati casi, riguardanti anziani non autosufficienti in gravi condizioni (per lo più malati di Alzheimer) può e deve essere posta a carico del Servizio Sanitario Nazionale allo stesso modo della componente sanitaria, già normalmente coperta dalla Regione per gli ospiti in possesso di impegnativa di residenzialità.

Il dispositivo interviene sul ricorso promosso da una casa di riposo lombarda, l’Azienda di Servizi alla Persona Golgi-Redaelli di Milano, che ha portato all’ultimo grado di giudizio la sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva dato ragione ai famigliari di un’ospite malata di Alzheimer riconoscendo la responsabilità del servizio sanitario anche per quanto riguarda il servizio socio-assistenziale a cui l’anziano era sottoposto.

Similmente ad altre sentenze ordinarie dei tribunali, la Cassazione ha ribadito che “le prestazioni socio-assistenziali di rilievo sanitario vanno ricondotte a quelle in carico al SSN qualora risulti, in base ad una valutazione operata in concreto, che tenga conto della patologia in atto, del suo stadio al momento del ricovero e della sua prevedibile evoluzione futura, che esse siano necessarie per assicurare all’interessato la doverosa tutela del diritto alla salute, in uno con la tutela della sua dignità personale. Si tratta in questi casi di prestazioni di natura sanitaria che non possono essere eseguite se non congiuntamente alle attività di natura socio-assistenziali, essendo anche queste a carico del SSN, poiché strumentali a quelle sanitarie; dunque nessun contributo può essere posto a carico del paziente in via contrattuale, per siffatte situazioni che restano tutte a carico del SSN”.

Il tema del limite e della distinzione tra componente sanitaria e componente socio-assistenziale ricorre periodicamente nella giurisprudenza italiana, mandando ogni volta in subbuglio le associazioni rappresentanti degli enti gestori delle case di riposo, che in questi ricorsi vedono una concreta minaccia ai propri bilanci, considerato che circa il 70% degli ospiti sono anziani non autosufficienti e che le demenze di tipo degenerativo come il morbo di Alzheimer dilagano tra la popolazione anziana.

Tra le altre, si ricorda ad esempio una sentenza del Tribunale di Verona del 2016 che aveva condannato una struttura a rimborsare a famigliari di un’ospite rette per un valore di oltre 20 mila euro.

Da anni le associazioni dei gestori delle case di riposo, chiedono alle Regioni, in particolare in Veneto, un intervento normativo teso a precisare il quadro della situazione e a prevenire le rivalse delle famiglie.

Tuttavia, le medesime sentenze, diventate ormai relativamente numerose, sono chiarissime nel qualificare come nulli – qualora ricorrano le condizioni per le quali sia impossibile distinguere le prestazioni sanitarie da quelle socio-assistenziali – tutti i contratti di natura patrimoniale sottoscritti all’atto dell’inserimento in struttura dagli ospiti o dai loro famigliari. E’ dunque facile presumere che un intervento normativo teso a negare una condizione clinica sarebbe facilmente impugnabile.

L’impressione è che non sia possibile, né tanto meno opportuno, cercare scorciatoie o semplificazioni in una situazione che per sua natura è complessa. L’invocato intervento legislativo dovrebbe essere rivolto a regolare il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione che è inarrestabile e parte integrante dell’attuale condizione sociale. Non si tratta, quindi, di penalizzare le famiglie, già gravate da insostenibili rincari delle rette, ma ad aiutare i caregiver, potenziare e diversificare i servizi alla terza età e riformare profondamente il settore delle case di riposo che di fatto sono diventate degli ospedali per lungodegenze.

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