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Potere di acquisto tagliato del 17% in tre anni

È emergenza ma il Governo parla d’altro

Pane a sei euro il chilo, latte a due euro al litro, frutta e verdura alle stelle, per non parlare di benzina, luce, gas, farmaci. La spirale inflattiva che impazza ormai da tre anni viene scaricata tutta su pensionati e lavoratori i cui assegni e i cui stipendi sono rimasti pressoché costanti. E in manovra economica del Governo non c’è nulla in grado anche soltanto di lenire tale condizione. Non il taglio delle accise sui carburanti, sbandierato in campagna elettorale. Non la proroga del mercato tutelato né la sterilizzazione degli oneri di sistema in bolletta. Non il fondo contro la povertà energetica o la rimodulazione dell’Iva sui generi di largo consumo. Non sostegno alle famiglie che soccombono alle rate dei mutui a tasso variabile. Ed è stato azzerato il fondo per il sostegno agli affitti.

La perdita netta del potere di acquisto negli ultimi anni è del 17%, vale a dire che ogni mille ore guadagnati 170 evaporano per effetto della rincorsa dei prezzi.


I dati ufficiali dell’inflazione negli ultimi tre anni parlano chiaro: più 1,9 per cento nel 2021, più 8,7 nel 2022, più 6 per cento nel 2023 (calcolata fino a oggi). Ma non dicono tutto, perché i beni alimentari, quelli per la cura della casa e della persona che compriamo con più frequenza, sono rincarati maggiormente: più 8,3% secondo l’Istat a settembre 2023.

Secondo Nicolò Giangrande, economista e componente l’Ufficio Economia dell’Area Politiche per lo Sviluppo della Cgil nazionale, neanche un ritorno a un’inflazione al 2%, che è l’obiettivo della Banca centrale europea, sarebbe in grado di ripristinare il potere d’acquisto perso dai salari in questi anni.

Si parla tanto di extraprofitti, che sono i veri responsabili di questa condizione, ma quelli delle banche (su cui il governo ha fatto più di una passo indietro) sono soltanto la punta dell’iceberg di un comportamento opportunistico che negli ultimi anni ha ingrassato anche società energetiche, multinazionali del comparto alimentare, aziende farmaceutiche e i principali rivenditori al dettaglio.

A questa situazione si può porre rimedio tassando davvero gli extraprofitti e aumentando i salari attraverso il rinnovo dei contratti nazionali, compresi quelli di oltre 3 milioni di lavoratori pubblici di cui il governo ha diretta responsabilità e sui quali non ha ancora messo un euro. Poi c’è la leva fiscale: la conferma della decontribuzione, l’indicizzazione all’inflazione delle detrazioni per i redditi da lavoro e da pensione, la detassazione degli incrementi salariali nazionali.

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